TEMPI DI... MERDA!

20.03.2013 11:51

Nel 1936 questo buffo personaggio di nome Charlot, ideato con successo dal poliedrico Charlie Chaplin, vagabondo buono dalle mille disavventure, entra in fabbrica. Reietto e disagiato, attraversa i primi decenni del ‘900 con l’incoscienza genuina di un bambino incantato mai cresciuto, arrivando nei cosiddetti “Tempi moderni”:  Charlot operaio di fabbrica nella Grande Depressione degli anni trenta, negli anni del taylorismo e dello stakanovismo in Unione Sovietica, lavora alla catena di montaggio come avvitatore di bulloni.

Le sequenze in fabbrica possiedono un taglio quasi documentaristico in chiave tragi-comica. Alla catena di montaggio gli operai si muovono come un gregge, con coordinati movimenti ritmati; Charlot guida una sorta di balletto meccanico asfissiante e surrealista, dai ritmi  sfrenati non troppo distanti dalla realtà del tempo e quindi dalla reale condizione di lavoro della classe operaia.

Impazzito a causa del ritmo accelerato della catena, finisce in manicomio. La parte iniziale del film ambientata in fabbrica alla catena di montaggio è una vera e propria denuncia che Chaplin rappresentò alla sua maniera con irriverenza, poetica, giovialità, malinconia. Della modernità critica la crescente disumanizzazione e alienazione imposta dal sistema industriale attraverso l’asservimento dell’operaio alle macchine: l’uomo non è più uomo, diventa operaio, ossia un misero ingranaggio di un macchinario, svuotato ed estraniato da se stesso e dagli altri (alla catena di montaggio, nelle scene del film, i rapporti umani diventano gag, nel senso che l’uomo è un mezzo senza anima impedito, con chiare difficoltà di autocoscienza).

L’operaio si consuma, usurato dai mezzi di produzione che lo adoperano (non è quindi l’operaio a utilizzarli, bensì l’inverso!); dal sistema di controllo rigido, il capo della fabbrica compare su megaschermi per sorvegliarli, anche nella toilette dove Charlot cerca di fumare una sigaretta, una sorta di anticipazione del Grande Fratello; dal dover utilizzare tutti gli attimi della giornata l’ operaio, il capo aumenta continuamente i ritmi, la velocità di produzione, e viene sperimentata una macchina che ciba i lavoratori alla catena di montaggio mentre lavorano, con il tentativo di eliminare la pausa pranzo e quindi evitare tempi morti; dallo sforzo fisico che provoca spasmi prolungati, Charlot a fine turno continua ad avvitare bottoni e tutto ciò che assomigli a un bullone: un sistema, quello capitalistico, dove l’uomo è il risultato del proprio lavoro.

Charlot così viene colto da esaurimento e trasportato in manicomio, ma quando ne esce viene scambiato per un agitatore nel bel mezzo di uno sciopero, così finisce in prigione. Uscito di prigione conosce una ragazza nullatenente e con lei va a vivere in una catapecchia di legno.

Ricomincia a vagabondare in una società meschina basata sulla diseguaglianza e l’ingiustizia che calpesta continuamente la dignità umana: i corpi sembrano indistinti tra la folla, la società ingoia le individualità che dimenticano la loro natura umana per diventare bestie inferocite ed egoiste, ognuno pensa alla propria condizione,  a migliorarla anche in condizioni di alto benessere, ma mai disposta a rendere un aiuto: l’umanità che marcia alla conquista della felicità incarnata dai prodotti dell’industria.  L’unica alternativa a questo destino di sfruttamento e alienazione va ricercata nella fantasia e nella creatività, nel ballo coi pattini quando trova occupazione come guardiano di un centro commerciale (dove con la ragazza per una sera gode dei beni della modernità) e con la canzone al ristorante dove lavora come cameriere (siamo alla fine del film).

Attimi di gioia, ritagli di vita. Charlot si ritrova di nuovo senza lavoro, ha fallito sempre. Con un bagaglio di speranza e un pieno di sogni, senza soldi, una casa, un lavoro, tenendo per mano la ragazza (alla quale dice: “sorridi!”) , si incammina fiducioso lungo una strada dritta che si perde all’orizzonte.

Chaplin, nella sua lunga carriera, ha avuto sempre un gran riguardo per i deboli, le classi sociali più disagiate, gli emarginati, i reietti (Charlot è proprio questo!). Il fatto di riportare e denunciare sul grande schermo la vita e la condizione degli operai diventa allora sintomatico. Una predisposizione pagata a caro prezzo in quell’ America (che pure tanto gli aveva dato), con accuse di comunismo e sovversione, perseguitato attraverso il maccartismo e caccia alle streghe.

Aveva un difetto forse, oltre a una infinità bontà d’animo, quello di essere un fottuto visionario (es. “il grande dittatore”). In “Tempi Moderni” i sogni, le visioni, la dimensione onirica, rendono ancora più ricco di incredibili modernità il film, forse troppo in anticipo sui tempi per poter essere apprezzato dal pubblico di allora.

Una rappresentazione divertente e mesta (ma fedele!) del lavoratore operaio di fabbrica alienato e svuotato, una visione che è valsa a Chaplin l’appellativo di Marxista nell’ ”America delle infinite libertà” che lo espulse. Un sistema figlio della cultura americana, e per questo perfetto e infallibile, e anche incriticabile!

In “Tempi (ancora più) Moderni” come questi, dove il sistema ha mostrato tutte le sue profonde e innumerevoli crepe, non sembrano molto migliorate le condizioni di vita degli operai, il che restituisce maggior merito a questo capolavoro, che forse (speriamo di no!) non smetterà mai di essere moderno.

Immutabile ed eterna deve rimanere invece la speranza: in fondo basta il sorriso di una ragazza per sentirsi ricchi e felici! 

Alejandro Di Giovanni 19/06/2011